«L’Europa non è mai esistita. Bisogna crearla». Così sentenziava Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea. Dall’antica Grecia ai manifesti politici degli anni ’40, emerge un dato chiaro: esistono tante idee di Europa quante sono le persone che la abitano. L’Europa non è un monolite unico, dominato dai medesimi interessi e trainato dalle stesse ambizioni, ma piuttosto un mosaico di opinioni e prospettive diverse, talvolta difficilmente conciliabili.
La tenuta della maggioranza Ursula
L’arrivo delle elezioni europee è stato accompagnato da una retorica allarmista che preannunciava una black wave, un’ascesa incontrollata dei partiti di estrema destra. Tuttavia, nonostante una moderata avanzata, l’equilibrio dell’emiciclo è rimasto quasi invariato.
La maggioranza Ursula – l’alleanza tra i partiti filo-europeisti che ha sostenuto l’attuale presidente della Commissione – ha retto. A comporre la coalizione il Partito Popolare Europeo (PPE) – di cui la stessa von der Leyen fa parte – l’alleanza dei Socialisti e Democratici (S&D) e il gruppo liberale Renew Europe (RE).
Passando ai numeri: Il PPE guadagna 10 seggi (da 176 a 186) consolidandosi come forza egemone in Parlamento. Invece S&Dha subito un leggero calo (da 139 a 134) con un crollo di consensi in Germania, compensato dai buoni risultati in Italia, Spagna e Portogallo.
Tra gli sconfitti di questo voto troviamo i centristi di Renew. I liberali accusano il colpo, penalizzati dalla sconfitta di Renaissance – il partito del presidente Macron – hanno visto ridursi i loro seggi da 102 a 79.
Al netto, i tre gruppi sono riusciti a raggiungere circa 400 seggi. Questo consentirebbe loro, almeno in teoria, di avere i numeri per eleggere il nuovo presidente della Commissione. Tuttavia, non sembra essere sufficiente: cinque anni fa la maggioranza era più ampia e la presidente era stata eletta con un margine di 9 voti.
Aprire a un altro gruppo diventa complesso: parte del PPE vorrebbe un accordo con Conservatori e Riformisti, ma i Socialisti pongono il veto. Un’altra possibilità sarebbe coinvolgere i Verdi, che tuttavia sono entrati in aperto contrasto con la von der Leyen dopo una sua revisione d’approccio riguardo al Green Deal. In questa circostanza, non si può nemmeno escludere che i popolari cerchino un candidato più bipartisan tra le loro fila.
Le dinamiche degli altri gruppi
Nella parte sinistra dell’emiciclo, si segnalano cambiamenti rilevanti: Verdi/Alleanza Europa Libera perde quasi 20 seggi arrivando a quota 53, una debacle segnata dai risultati dei Grünen in Germania. Resta invece stabile Left che perde un solo seggio, passando da 37 a 36, ma posizionandosi bene nel nord Europa.
Dal lato opposto, cresce l’ECR – il gruppo dei Conservatori e Riformisti – che sale da 69 a 73 parlamentari grazie al risultato di Fratelli d’Italia. Esito favorevole anche per gli euroscettici di Identità e Democrazia che aumentano di 9 il proprio organico grazie a diverse vittorie, una su tutte quella di Rassemblement National.
Restano da monitorare il centinaio di parlamentari non affiliati e non iscritti ai gruppi che completano l’emiciclo, di cui fanno parte sia Fidesz – il partito di Orban – sia l’AfD dopo la fuoriuscita da ID.
I risultati in giro per l’Europa
Spostandosi sui risultati delle singole nazioni, le riflessioni cambiano, soprattutto negli stati di maggiore rilevanza – almeno in chiave numerica – come Francia e Germania, il cui equilibrio risulta alquanto alterato.
In Francia, l’attuale partito di opposizione Rassemblement National (RN) – membro di ID – ha ottenuto il doppio dei voti del partito di Macron, superando il 31%. Da tempo la linea “macronista” è accusata di interessarsi con funambolismo agli esteri e di essere distante dalle istanze interne alla Francia. Dopo gli exit poll, tra strategia e azzardo, il presidente ha annunciato lo scioglimento della camera bassa del parlamento francese, convocando nuove elezioni entro fine mese.
Le elezioni anticipate sono una scommessa: da una parte, Macron spera di poter giocare la carta evergreen del voto responsabile contro il rischio eversivo; dall’altra, è consapevole che l’esercizio e la condivisione del potere tendono a diminuire il sostegno nel tempo e confida che ciò accada al Rassemblement National.
La statistica non è del tutto dalla parte del presidente: nel maggio ’68 il generale de Gaulle aveva riottenuto la maggioranza, ma più recentemente il gollista Jacques Chirac trovò una camera non rafforzata e fu così costretto a nominare un primo ministro socialista e a governare in collaborazione con l’opposizione.
In Germania, la coalizione di governo formata dai Verdi e dall’SPD del cancelliere Scholz non ha retto il confronto con CDU/CSU, non raggiungendo – combinati – le percentuali del centro-destra. Invece, storico il risultato dell’AfD, il partito di estrema destra diventa il secondo più votato. Il suo consenso è la netta espressione delle istanze dei tedeschi orientali, anti-occidentali, concilianti verso Mosca e critici verso l’Unione.
Nella penisola iberica, esiti speculari: i popolari hanno superato i socialisti di Pedro Sanchez di 4 punti, mentre in Portogallo S&D guadagna un seggio più del PPE.
In Belgio la destra sorride, con un’affluenza record dell’89%, conquista 6 seggi portando il premier Alexander De Croo in quota con Renew, alle dimissioni. Grande risultato per ID in Austria, dove il partito FPÖ ha quasi raddoppiato le sue preferenze rispetto al 2019, superando popolari e socialisti.
I liberali reggono bene il confronto solo in Repubblica Ceca e Slovacchia, dove Smer del primo ministro Robert Fico, inaspettatamente, non sfonda.
Caso peculiare quello dell’Ungheria, dove nonostante la vittoria netta di Orban – oltre il 44% – ha visto l’ascesa con il 30% di Tisza, il partito in quota popolare fondato pochi mesi orsono da un ex collaboratore di Orban. Il dato è storico: per la prima volta dal 2004 il Fidesz ha ottenuto meno del 50%.
Conferma in Polonia per i moderati di Piattaforma Civica del premier Tusk che raggiungono quota 37%, superando di poco i favoriti di Diritto e Giustizia. Il partito dell’ex primo ministro Morawiecki, che aveva governato in Polonia fino allo scorso anno, ha ottenuto il 36%, perdendo 3 seggi. Convalida invece per il centro-destra nelle repubbliche baltiche, in Grecia, Croazia e Bulgaria.
Fronte differente nel nord Europa dove la sinistra ha ottenuto buoni risultati nei paesi scandinavi: spesso più i radicali che i moderati. In Finlandia, l’alleanza VAS (Left) ha ottenuto uno storico 17% posizionandosi dietro al centro-destra. In Svezia, invece, leggero calo dei Democratici Svedesi (ECR) in favore dei socialisti.
Nota di colore a Cipro, dove lo youtuber Fidias Panayiotou ha ottenuto quasi il 20% dei voti, appena pochi punti percentuali dietro a comunisti e conservatori. Il giovane è arrivato terzo in un’elezione in cui lui stesso votava per la prima volta e in cui non ha sostanzialmente fatto campagna elettorale.
Un occhio all’Italia
La grande vincitrice è senza dubbio Giorgia Meloni, che con il 28,8% dei voti ha confermato Fratelli d’Italia in vetta per preferenze tra i partiti italiani. Parallelamente, il Partito Democratico, guidato da Elly Schlein, ha ottenuto il 24% dei consensi, consolidandosi come principale partito di opposizione. Sorpresa invece per l’alleanza Verdi-Sinistra che ha superato le aspettative, raccogliendo il 6,7% dei voti. Questo risultato è in parte da attribuirsi alla candidatura di figure simboliche come Ilaria Salis e Mimmo Lucano.
Non è andata altrettanto bene per la Lega, che con il 9% dei voti, si è vista superare da Forza Italia, attestatasi al 9,6%. Questo segna un notevole declino per il partito di Matteo Salvini rispetto ai fasti del 2019, quando aveva ottenuto oltre il 34% alle elezioni europee.
Anche il Movimento 5 Stelle ha subito un duro colpo, raccogliendo solo il 10% dei voti, sette punti percentuali in meno rispetto alle scorse europee e cinque in meno rispetto alle ultime politiche, il peggior risultato mai registrato dal partito.
Azione, guidata da Carlo Calenda, e la lista Stati Uniti d’Europa, che univa Italia Viva di Renzi e +Europa di Emma Bonino, non sono riuscite a superare la soglia di sbarramento, rimanendo senza seggi nel Parlamento europeo.
Quale orizzonte per l’Unione Europea?
Sebbene la svolta a destra non produrrà effetti clamorosi – anche considerando la divisione tra ECR e ID -si inserisce a tutti gli effetti in un contesto geopolitico che ha già costretto l’Unione Europea a numerosi aggiustamenti.
In particolare, le istanze ecologiste e le politiche di riduzione delle emissioni del Green Deal subiranno un ridimensionamento. Il crollo dei Verdi, la necessità di rilanciare l’industria pesante in chiave militare e l’aumento dell’influenza dei conservatori rendono improbabile che l’agenda verde continui ad essere implementata come negli ultimi cinque anni.
Programmi per lo sviluppo di sistemi d’arma comuni e strumenti finanziari per potenziare la produzione saranno probabilmente al centro dell’attenzione. L’insofferenza di alcune fasce della popolazione verso le politiche ecologiche – come dimostrato dalle numerose proteste dei trattori – completa il quadro.
La traiettoria geopolitica di Bruxelles non cambierà sostanzialmente. Le forze critiche del sostegno europeo all’Ucraina ottengono buoni risultati, ma rimangono marginali in sede di voto, e i governi nazionali – determinanti nella composizione della Commissione – continuano ad essere per lo più vicini a Kiev. Lo stesso vale, ancora di più, per i rapporti con gli Stati Uniti, data la sostanziale assenza di fazioni esplicitamente antiamericane. Non è però da escludere che l’intensità del supporto fornito all’Ucraina diminuisca, specialmente dopo i risultati di Macron e Scholz
Chissà cosa ne penserebbero i padri fondatori? Monnet immaginava un federalismo capace di unire i popoli, non solo di farli cooperare. Tuttavia, ieri come oggi, sono le sovranità nazionali, come espressione del volere popolare, a costituire l’elaborato mosaico europeo.